Sono poche le occasioni per scarpinare con gli amici di Ascoli, gli impegni e le rogne ci tengono spesso lontani dalle nostre
troppo care Marche; quando però riusciamo a prenderci i tempi giusti, organizzare qualche uscita con loro è sempre facile,
basta un giro di sms e da qualche parte puoi star certo si va.
Nonostante il week end in dubbio per le solite questioni meteo, Laga e Sibillini erano out per una persistente perturbazione
che faceva ristagnare nuvole a quote anche basse, nessuno si era perso d’animo.
Senza andare troppo lontano il Velino avrebbe offerto una buona alternativa e, almeno nelle previsioni, poteva assicurare un
miglioramento delle condizioni durante la tarda mattinata. Ho dato il mio contributo suggerendo la bella cresta del Puzzillo
partendo dal valico delle Chiesole, magari con una digressione per il rientro verso la cresta parallela del Morretano e Torricella,
per chi non voleva salire sulla seconda dorsale ci sarebbe stata la possibilità di chiudere l’anello per la valle del Morretano.
L’escursione è una classica del Velino, medio dislivello e media lunghezza, estremamente panoramica, e per me, denuncio il mio
effimero interesse dal momento che dovevo tornare verso Roma, anche comoda perché non lontana dalla traiettoria autostradale del
rientro a Roma. A dire il vero la pensavo anche un po’ banale per i miei amici “volponi” di Ascoli, sempre avvezzi a starsene in
giro tutti i week end ed è stata una grande sorpresa, incontrandoci la mattina, sapere che la meta sarebbe stata quella.
Dall’autostrada il paretone del Gran Sasso nemmeno si vedeva tanto basse erano le nuvole, dopo la galleria il cielo sembrava
promettere più schiarite, ma è durata poco questa illusione, superata l’Aquila e la valle dell’Aterno mentre si sale verso la
successiva galleria di San Rocco, le cime delle montagne intorno ritornano a sparire tra le nuvole e gli orizzonti ritornano brevi
e cupi. Quando, usciti a Tornimparte saliamo i tornanti verso Campo Felice la situazione non migliora, al valico delle Chiesole è
praticamente nebbia bassa ed un leggero recente manto nevoso ci riporta a condizioni prettamente e inaspettatamente invernali. Per
fortuna non è freddo. Parcheggiamo al valico, nei pressi del cartello che indica il passo, accanto al sentiero ben visibile che sale
traversando il ripido pendio boscoso che ci sovrasta. Il sentiero sale per un tratto parallelo alla strada sottostante, raggiunge la
dorsale che scende verso l’area attrezzata per i pic nic di prato Agapito e quando le pendenze diventano decisamente più leggere
vira verso Ovest iniziando con pochi e agili tornantini ad infilarsi nel bosco. Si guadagna prestissimo la cresta, il bosco è rado,
la nevicata pur leggera lo rende ancora più bello, il nero delle cortecce ed il bruciato delle poche foglie sopravvissute e ancora
attaccate ai rami contrastano con gli arabeschi formati dalla neve che ci si è appoggiata. La leggera spruzzata non crea problemi,
la pendenza è leggera e anche se iniziamo subito a separaci in diversi piccoli gruppetti con andature diverse filiamo veloci.
La visibilità è veramente ridotta, a tratti si allunga ma mai tanto da vedere oltre poche decine di metri davanti, solo verso la
piana di Campo Felice c’è maggiore profondità, ma forse è solo perché le nuvole non riescono ad abbassarsi dentro quel catino.
Fuori dal bosco si iniziano ad intuire i saliscendi rocciosi che anticipano la cima del monte Fratta, tra le nuvole che corrono
di tanto in tanto si intravede l’omino in cima e intorno a questo ci ricompattiamo per una prima sosta; solo Antonella fuggitiva
là davanti, imperterrita nella sua andatura costante è ormai persa nelle nuvole. La sosta dura poco, giusto il tempo di qualche
pezzo di cioccolata e qualche reciproco sberleffo, la nullità tutto intorno non ci da motivi per perdere tempo a guardarci intorno,
ripartiamo alla spicciolata e già dopo pochi passi siamo di nuovo dispersi e sparpagliati nelle nuvole.
La visibilità continua a rimanere minima, anzi, a tratti salendo di quota sembra annullarsi quasi del tutto, di tanto in tanto il
sole timido sbircia ma non riesce a bucare le nuvole, qua e là si aprono spiragli che allungano i panorami, ma sempre limitati ed
informi rimangono, ci arrivano solo dettagli di montagne che conosco falsati nei colori e nelle dimensioni; l’erto spigolo del
Cornacchia si perde davanti a noi nel cielo lattiginoso, la salita sembra uno spigolo senza fine che si perde nel nulla. Per un
momento il cielo si squarcia, l’azzurro improvvisamente folgora e tra le nuvole ad Ovest prende forma la dorsale del Torricella
che scorre parallela a lato; il monte Torricella, imbiancato nella quasi totalità, ci viene regalato senza preavviso, il suo
costone ci sembra di una montagna immensa nonostante la sua mole non sia di quelle che impressionano, effetto del nulla del prima.
Dura niente questo momento, presto le quinte si richiudono, rimane solo la speranza che nell’atmosfera si stia preparando ciò che
era nelle nostre speranze e nelle previsioni meteo della tarda mattinata, cioè una improvvisa quanto provvida schiarita. Sfiliamo
accanto all’omino del Cornacchia, lo spigolo finisce e poi si riprende con continui saliscendi; il ricordo tradisce la realtà,
forse quando hai visibilità ti perdi negli orizzonti e non badi alle salite ma ricordo la cresta dopo il Cornacchia una sorta di
lunga quasi piatta dorsale; viaggiando tra le nuvole invece ti viene ridato indietro solo l’immediato che hai intorno e l’immediato
è fatto di roccia scomposta, di passaggi in equilibrio tra queste e di diversi saliscendi. Guardo i miei compagni, chi è con me,
alcuni davanti sono appena intuibili, arrivano solo le loro voci, quelli dietro ci seguono come ectoplasmi silenziosi, guardo la piana
di Campo Felice, verde e indefinito catino, guardo la pagina bassa e bruna dell’Orsello che stranamente è più o meno costantemente
visibile, sento i rumori e le voci attenuate, vedo lo spettro del sole e i chiaro scuri delle nuvole che si rincorrono; non vedo la
piana del Puzzillo e le montagne del Velino che so essere là davanti, non vedo il Cefalone, nella mia mente quei panorami si formano,
ci sono, nella realtà siamo soli nel nulla. Sento e vedo nulla o poco eppure la sensazione che vivo è intima e fantastica, un momento
da vivere in ogni caso, bello in ogni caso, rifletto che me lo devo ricordare sempre tutte le volte che il meteo non è dalla nostra.
La montagna non è solo salita e panorami, successi tangibili e fotografia, è anche uno stato emozionale, un universo intimo e potente,
una forza capace di parlarti direttamente e intimamente. Ero con la mia compagna e con gli amici, che a tratti sentivo e non vedevo,
sentivo la montagna intorno e non la vedevo, ero con me stesso, e stavo bene, ed era bellissimo.
Arriviamo al Puzzillo e l’ultimo tratto della cresta era forse quella che ricordavo, lunga, larga e piatta; vediamo il grosso omino
di vetta solo all’ultimo momento, ora nel mezzo c’è piantata una croce che non c’è mai stata, due bastoni, forse le palizzate dei
recinti caduti, costruita forse sul posto, legata con delle corde, sofferente e precaria, più croce di tante croci e più vera di
tante che sono sparse sugli Appennini. Il grosso omino è disseminato di pietre dove i malati grafomani hanno dovuto per forza
lasciare il loro passaggio, ben quattro scritte a pennarello confermavano la vetta del Puzzillo e la sua altezza. Devo subire lo
scherno dei miei compagni, lo stile è il nostro, del Club2000, la stessa grafia che ormai impazza su tutte le montagne. Spero in
una folgorazione che riporti un po’ di saggezza nel nostro bel gruppo; basta con le scritte, soprattutto basta ripeterle ai quattro
versanti, è solo protagonismo, non è amore per la montagna, è un ripetere i cattivi costumi delle nostre città ormai irrimediabilmente
imbrattate.
Scivoliamo un po’ sotto la vetta, verso Ovest, per ripararci dalla leggera brezza, per accamparci e per mangiare qualcosa; come
fosse già stata scritta la scenografia dell’escursione ed il regista avesse dettato i tempi, nemmeno ce ne accorgiamo, le nuvole
si alzano, si diradano e lasciano spazio agli orizzonti finalmente sconfinati. L’interminabile susseguirsi delle alte montagne del
gruppo del Velino sono il nostro orizzonte verso Ovest, le nuvole ora alte e bianche, disposte a cumoli-nembi giocano a costruire un
puzzle incostante e mutevole col cielo azzurro; credo che la primavera sia il periodo migliore per godersi questi scenari. I profili
innevati si leggono a meraviglia e le montagne si distinguono come in una proiezione in 3D, i contrasti tra cielo azzurro e nuvole, la
neve bianca e le fasce scure o ghiaiose dove questa si è già consegnata alle falde sottostanti costruiscono una tavolozza suggestiva e
multicolore. Ci divertiamo a dare un nome alle vette minori, a riconoscere le montagne, ed è incredibile come nonostante ognuno pensi
di conoscerle, tutti prima o poi incappano in uno sfondone. Antonella detta i tempi, riprende lo zaino e si capisce che è ora di
incamminarsi per il ritorno; ha ragione, altrimenti la quiete del momento chissà quando ci avrebbe fatto ridestare. Ritorniamo per
meno di un chilometro indietro sulla cresta, in una selletta sopra il passo del Morretano prendiamo a scendere verso Ovest, verso il
passo stesso; qualcuno ha disegnato a terra con dei sassi una grossa freccia che indica il percorso ma a stare attenti poco sotto un
bell’ometto sopra un roccione indica già la strada. Il primo tratto di discesa è formato da un sentiero marcato fatto da stretti e
ripidi tornanti, più sotto, quando la pendenza diminuisce si procede senza una traccia e si guadagna la sella; le opzioni che ci
dettiamo per il rientro sono due, scendere per la valle del Morretano o traversare fino alla cresta di fronte per raggiungere, a
metà cresta, il monte Torricella. Quando i gruppi sono folti la cosa bella è che si trova sempre un compagno per una iniziativa
diversa e ci esce quindi anche una terza opzione, quella si salire diretti con una pettata da togliere il fiato verso la cima del
monte Morretano. Chi a valle, chi traversando, chi salendo diretti al Morretano, ci si ridivide di nuovo, l’appuntamento è all’imbocco
del bosco al termine della valle aperta, i primi che arrivano … aspettano. Dal basso osserviamo i compagni sfilare in cresta, la
giornata è diventata meravigliosa con un clima perfetto e la sosta che ci concediamo in attesa di ricongiungerci è semplicemente
meravigliosa.
Entrando nel bosco il sentiero prima sfila tra gli alberi ed è marcato dai soliti segnavia e poi diventa una larga carrareccia che
ci porta nei pressi di prato Agapito, ormai prossimi al valico delle Chiesole; incrociando una carrareccia più marcata la prendiamo
girando a destra, tra il bosco rado, sul fianco del monte Orsello davanti a noi si intravede lo sbancamento della strada che dobbiamo
raggiungere; per evitare di percorrere troppo asfalto evitiamo l’ultimo tratto di prato Agapito, un lungo traverso che sale fino alla
strada e tagliamo a destra in salita, quando arriviamo sulla striscia di asfalto siamo praticamente alle macchine. Rimane solo da
decide in quale osteria finire la giornata. Alla fine abbiamo percorso circa 13 chilometri con ottocento metri di dislivello, una
passeggiatona senza grandi ostacoli, ideale per starsene all’aria aperta senza strafare. La conclusione? Ovviamente in osteria, nei
pressi di Lucoli… da Macondo che ci ha fatto accomodare nonostante l’ora ormai pomeridiana, … tutti i salmi finiscono sempre in gloria!